Dove non ci sono tagli si apre un mondo nuovo
Intervista con Peter Zeitlinger di Patricia Maličev
Peter Zeitlinger, da bambino è stato testimone di importanti cambiamenti socio-politici in un’Europa che all’epoca era ancora divisa in due. I primi anni di vita li ha vissuti a Praga, che ricordi ha di quel periodo?
Quando l’esercito sovietico occupò la Cecoslovacchia avevo nove anni, mi ricordo dei soldati e dei carri armati. Mi ricordo dell’unità del popolo basata su una sorta di nazionalismo, ma non discriminatorio come lo conosciamo oggi. Oggi non accettiamo chi arriva da noi, i cosiddetti migranti, perché abbiamo paura che ci rubino il posto di lavoro e sciocchezze simili. Il comunismo cecoslovacco all’epoca promuoveva un’idea di comunismo in cui la gente viveva insieme per quanto possibile in armonia. Mi ricordo quando in una delle piazze principali di Praga la gente iniziò a raccogliere le proprie ricchezze, i tesori di famiglia, oggetti preziosi di antiquariato, per aiutare le persone più bisognose della comunità. Così ragionava il proletariato. Ma al sistema interessavano altre cose, il desiderio di indipendenza di una nazione rappresentava una minaccia. Anche per questo motivo all’esercito fu permesso di scendere in strada. All’epoca non capivo esattamente cosa stesse succedendo, ma mi piaceva il senso di solidarietà, l’ho vissuto da bambino ed è rimasto con me fino a oggi, quando sento profondamente la mancanza di un impegno comune a favore delle idee giuste, che potremmo implementare nella nostra vita.
All’epoca mia madre lavorava in Austria per periodi abbastanza lunghi, poi finalmente la raggiunsi e ci trasferimmo lì nel 1970. Mio padre faceva il musicista a Marienbad, erano divorziati, lui si era rifatto una famiglia. Oggi sono in contatto con lui, anche se prima non ci eravamo visti per più di trent’anni. Porto il cognome di mio padre adottivo, colui che mi ha cresciuto. Passavo il mio tempo creando, dipingendo… già quando vivevo a Praga. Continuai anche dopo che ci eravamo trasferiti in Austria. Non conoscevo la lingua, per gli altri bambini del quartiere ero uno straniero. Cercavo sempre di nascondermi dietro a qualcosa, che fosse la pittura o più tardi la cinepresa. Anche se non mi sentivo accettato, gli altri apprezzavano i miei disegni. Attraverso essi e i miei cortometraggi continuavo a esplorare il mondo senza aver bisogno di interagire direttamente con gli altri o mettermi in mostra come fanno ad esempio gli attori. Lo faccio tutt’ora: mi nascondo dietro alla cinepresa.
È cresciuto e ha studiato in Austria, poi ha vissuto in diverse parti del mondo, gli ultimi anni in Friuli Venezia Giulia – quanto è rimasto oggi in Lei dell’essere ceco?
Credo parecchio. Penso che, proprio come il festival Omaggio a una visione, che si svolge in un territorio transfrontaliero e per questo offre una visione delle cose non solo diversa, ma anche più ampia e sfaccettata, anch’io riesco a comprendere di più e vedere più lontano perché sono di qui e al contempo “di altrove”. Si tratta sempre di una questione di prospettive. Le persone con prospettive più ampie di solito non odiano a causa dell’appartenenza nazionale. Non hanno questi pregiudizi. Chi ha solo una prospettiva, perché conosce solo quella, odia tutto ciò che gli è estraneo.
All’Accademia del cinema di Vienna ha studiato montaggio e fotografia cinematografica. Oggi insegna queste materie agli studenti dell’università di Monaco di Baviera.
All’inizio mi sono dedicato molto al montaggio, sia teorico che pratico e, dato che contemporaneamente seguivo i corsi del filosofo Johann Mader, sono giunto alla conclusione che il montaggio è una grande contraffazione ripresa dalla storia del cinema, soprattutto dalla teoria del montaggio di Eisenstein, che deriva dalla premessa secondo cui l’unione di due o più immagini o inquadrature diverse definisce un nuovo messaggio che un’immagine da sola non può rappresentare… È facile mettere insieme le cose, contraffare una storia. La vera creazione cinematografica è quella in cui non c’è montaggio. Ogni tanto, come per tutte le cose, anche questo diventa una moda, ma solo i più grandi maestri sanno padroneggiarlo. Al momento sto girando con uno dei più celebri registi televisivi tedeschi, che non è capace di girare una scena senza cinque, sei o più tagli.
Nella vita non esistono tagli, siamo in mezzo alla scena e viviamo nel suo tempo, nello spazio e nella continuità causa-effetto. Anche quando raccontiamo una storia è così: definiamo il tempo, lo spazio e il protagonista. Drammaturgia classica, direi. Solo quando ricordiamo qualcosa in flashback, nelle associazioni mentali, quando sogniamo… solo in quel caso ci sono dei tagli. Anzi, addirittura quando sogniamo non ci sono tagli. Perché i sogni sono amorfi, quando nei sogni vediamo qualcuno e ci giriamo dall’altra parte, poi riguardando la stessa persona ne vediamo un’altra. Nei sogni l’immagine muta mentre la guardiamo. I tagli sono un’invenzione della mancanza di creatività. Il titolo della mia tesi di laurea in montaggio era Abolizione del montaggio. Ovviamente non è stata accettata e perciò non mi sono laureato in montaggio. Credo di non aver inventato niente di nuovo dicendo che il montaggio è inutile. La mia tesi è stata confermata da diversi film, per citarne alcuni abbastanza recenti: Birdman o l’imprevedibile virtù dell'ignoranza, Roma di Cuaron (che ha uno splendido montaggio), Revenant o Gravity, che sono senza tagli. Dove non ci sono tagli si apre un mondo nuovo.
Alla fine si è laureato con lode in fotografia cinematografica e dopo pochi anni ha realizzato con un collega il film Tunnelkind, la storia di una bambina che varcava di nascosto il confine tedesco-cecoslovacco, seguito poi da Losses to Be Expected con Ulrich Seidl. Quanto di autobiografico c’è in questi film?
Molto. Quando il regista Erhard Riedlsperger mi propose di girare un film, la sua storia parlava di una bambina che andava nel bosco, giocava con gli animali… una storia epico-romantica. Una noia! Quando ottenne il sostegno finanziario, Riedlsperger dovette riscrivere la sceneggiatura e io lo aiutai. La bambina che gioca nel bosco con i ragni non è una storia, gli dissi. Mi diede ascolto. Perché non fare qualcosa che accentuasse il suo ruolo, qualcosa che avesse un significato anche politico? Perciò gli suggerii di ambientare la storia sul confine, all’epoca della cortina di ferro. Il mondo della protagonista era come il mio, diviso a metà, la sua vita spaccata a causa della morte del padre… Certo, elementi autobiografici. Una cosa simile è successa con Losses To Be Expected. Se fai un film con un regista che conosci da tempo e con cui sei cresciuto, come abbiamo fatto io e Ulrich, allora non ci possono essere grandi errori nel progetto. Un amico, un coetaneo, ti ascolta sempre e Seidl lo è. Il film Losses To Be Expected è per certi versi anche la mia storia, una traccia del ricordo del mio passaggio dalla Cecoslovacchia all’Austria, per fortuna senza vittime.
Abbiamo girato Losses To Be Expected sei mesi. Le persone che volevamo riprendere si sono gradualmente abituate a noi, alla presenza di telecamere e microfoni. Per alcuni mesi abbiamo praticamente vissuto con loro. Quando ci hanno accettati completamente, abbiamo iniziato con le riprese. Tutto ciò che si vede nel film è stato preparato e concordato in anticipo. Abbiamo definito il tema del confine e osservato con le telecamere le reazioni della vita. Le scene sono state preparate anticipatamente. Alcune le abbiamo dovute rifare anche sedici volte. Altre sono riuscite bene al primo tentativo, ad esempio la scena con il gallo. Durante le riprese seguivamo alcune regole: seguire i protagonisti nel loro mondo con la telecamera a spalla, dialoghi preparati in precedenza, immagini dello stato delle cose e dello stato d’animo dei personaggi definite anticipatamente, interviste documentarie come contraffazione della realtà. Tutto ciò che vediamo nel film crea un’illusione di spontaneità – fino al culmine della storia d’amore tra Paula e Josef che si sviluppa oltre il confine dell’ex cortina di ferro.
Quel periodo è stato molto importante anche per la mia carriera di autore e direttore della fotografia. Durante le riprese facevamo esperienza, imparavamo da autodidatti. All’epoca non c’era la possibilità di seguire delle masterclass online come si fa oggi (sorride). Sapevi quello che avevi imparato durante le lezioni all’università. C’era anche il campus estivo a L’Aquila, dove venivano invitati i direttori di fotografia, ad esempio Vittorio Storaro, Sven Nykvist, Vilmos Zsigmond… Se ho imparato qualcosa di importante sulla fotografia cinematografica, l’ho imparato da loro. Cose molto semplici...
Ad esempio?
Ad esempio utilizzare le candele per l’illuminazione e non enormi luci. Osservare come si comporta il viso e come prende vita quando è illuminato dalla luce naturale, come faceva Nykvist.
All’accademia ci insegnavano cose piuttosto convenzionali: luce frontale, laterale, posteriore e tutte quelle stupide luci che si usano nelle riprese televisive e che venivano utilizzate a Hollywood dagli anni trenta in poi. Mi ricordo anche di Gordon Willis, direttore della fotografia ne Il padrino II, dove aveva utilizzato le luci dall’alto. Ci insegnò un paio di bei trucchi… Ma ci raccontò anche com’è difficile creare qualcosa di nuovo, di diverso. I produttori possono essere molto limitati nelle proprie concezioni, temono di perdere denaro, mentre in realtà sono gli approcci nuovi e coraggiosi a portare avanti il cinema, non i soldi. Tutti i grandi maestri che ho menzionato ci hanno trasmesso questo, ognuno a modo suo, ovviamente. Ognuno di loro ha trovato la propria strada al di là delle rigide convenzioni cinematografiche. E in questo erano fantastici, mentre degli autori mediocri non resta traccia nella storia del cinema. Quando girai il mio primo film pensavo fosse anche l’ultimo, credevo che non avrei avuto successo. Non ho fatto che rischiare e provare cose nuove, ma quella era per me l’unica via possibile, ora lo so. Ho avuto la fortuna di avere sempre al mio fianco registi e collaboratori che lottavano con me. O, come disse T. W. Adorno, “non si dà vita giusta nella falsa”. Puoi viverla in modo un po’ più giusto, ma mai completamente.
Come ha scelto con quali registi collaborare, a partire dal film Tunnelkind?
Erano altri tempi. In realtà all’epoca non pensavo nemmeno a come collaborare e con chi. Era diverso rispetto a oggi, quando gli operatori cinematografici vengono invitati a collaborare perché hanno lavorato con filmmaker famosi (sorride). Ho sempre desiderato lavorare con le persone con cui sono cresciuto, i compagni di studi, ad esempio. Oppure con persone con le quali avrei potuto imparare e crescere. E allora come mai lavoro con Herzog? Ma è stato Werner a voler lavorare con me. Era più vecchio e più esperto, e anche più famoso, ovviamente.
Com’è nata la vostra collaborazione?
Ero ancora studente all’Accademia e con Ulrich Seidl avevamo appena finito di girare il documentario Amore bestiale sulla morbosa dipendenza dei Viennesi nei confronti dei loro animali da compagnia. Avevamo iniziato con il montaggio. L’Istituto cinematografico austriaco ci negò il sostegno finanziario, dicendo che un film dal contenuto così scabroso non meritava il loro denaro. Ulrich sapeva che Herzog era in città e lo cercò. Guardammo insieme il film, che a Werner piacque molto. Chiese a un suo amico che lavorava in un importante giornale austriaco di scrivere una recensione. Lui lo fece, includendo i pensieri di Herzog: che è un ottimo film, la cui vera rivelazione è il giovane Peter Zeitlinger. Gli mandai una lettera di ringraziamento, dicendo che forse tra dieci anni avremmo potuto collaborare (sorride). Due settimane dopo eravamo già in Italia a girare il film Gesualdo: Death for Five Voices, sul compositore Gesualdo, un assassino che annientò brutalmente la moglie e i figli. Ovviamente Werner era il mio idolo, come Volker Schlöndorff, Fassbinder...
Da allora ha girato con Herzog una decina di film sullo stato delle cose e della natura nel mondo, sui malviventi (Il cattivo tenente) e psicopatici di tutti i tipi, sul pilota Dieter Dengler che riuscì a sfuggire ai vietkong durante la guerra in Vietnam (Il piccolo Dieter vuole volare), su un amante degli orsi (Grizzly Man), sugli scienziati e filosofi ai confini del mondo, sulle diplomatiche dell’Impero britannico nel deserto, sui vulcani e sulle grotte, sul passato e sul futuro… Qual è la chiave del successo della vostra collaborazione ?
La sincronia, direi. L’economia nel non perdere tempo. Il capirsi senza troppe parole. La fiducia. Il mantenere la tensione e la freschezza sul set. Il desiderio di raccontare le storie come sono in realtà.
Spesso usa la telecamera a spalla, anche quando agli spettatori sembra di guardare delle riprese fatte con la telecamera statica, ed è molto agile anche fisicamente. Cosa riprende e come lo fa? Cosa invece non fa?
C’è tutta una serie di motivi sul perché faccio determinate cose in un determinato modo. Il motivo per cui porto la telecamera a spalla e la punto in un certo modo è semplice: voglio catturare il mondo e la storia nel luogo in cui essa si svolge. E per evitare quello di cui abbiamo parlato prima riguardo al montaggio, bisogna cambiare prospettiva. Bisogna cercare la prospettiva della storia con la telecamera: da sinistra a destra, da lontano verso la profondità. Il modo corretto di farlo è quando hai la sensazione di portare in spalla lo spettatore anziché la telecamera. E quando ti rendi conto che è importante l’idea di ciò che stai riprendendo e di colui che stai portando in spalla. Questo è percepibile nei film che a volte vengono rovinati durante il montaggio, ma in cui il pubblico si sente ancora trascinato dentro la storia. Questa è l’idea di base che va ricercata durante le riprese di qualsiasi film.
Nella sceneggiatura originale de Il cattivo tenente la storia è ambientata a New York. A girare il film alla sua maniera è stato il regista Abel Ferrara nel 1992, con Harvey Keitel nel ruolo di protagonista. Herzog l’ha girato 17 anni dopo, nelle strade di New Orleans, con Lei come direttore della fotografia e Nicholas Cage come protagonista. Che scenografia urbana volevate?
Era il periodo subito dopo le devastazioni dell’uragano Katrina, che ha modificato notevolmente il paesaggio, portandosi via anche gran parte della sensibilità del luogo. In realtà il film non la prevedeva, non volevamo la musicalità della città né il suo charme, perciò non ci sono riprese del quartiere francese né dei jazz club. Volevamo la sporcizia e il senso di pericolo imminente nell’aria, un’atmosfera da crimine. A volte facevamo le riprese in luoghi dove ci avevano consigliato di non abbandonare il set, perché se camminavi in giro da solo ti avrebbero come minimo derubato, se non addirittura ucciso. Toby Corbett era il nostro scenografo. Gran parte di ciò che si vede nel film è stato preparato in anticipo da Toby e il suo team, prima che arrivassimo noi con il regista e gli attori: le macchine scassate, gli edifici ridipinti… Solo così il mondo di New Orleans è diventato vero nel modo in cui lo intendeva Werner.
Come creavate l’atmosfera con le luci?
Non abbiamo utilizzato l’illuminazione cinematografica tradizionale, qua e là c’era qualche lampadina da parete o una piccola fonte luminosa come parte della scenografia. Herzog non tollera niente che aggiunga al film una qualche nota estetica. La mancanza di estetica è in verità un tipo di estetica in sé, uno stile, e questo fa certamente parte di tutti i suoi film, anche se non volutamente. Allora ho pensato che si sarebbe potuto chiamare film blanc anziché film noir, un film bianco, chiaro, nel senso dell’effetto ottico, non del contenuto, ovviamente. Per questo tipo di riprese è necessaria più luce, perché la luce naturale è sempre più forte e più morbida, viene da fuori...
Mi sembra che ne Il cattivo tenente il suo istinto di direttore della fotografia abbia giocato un ruolo importante, creando una sorta di ritmo interno del film che intreccia un legame con lo spettatore.
Sì, il flusso interno del film è molto importante ed è qualcosa che non si può creare in sala montaggio né progettare in dettaglio. Quando Werner gira, non ha molte cose preparate in anticipo, sa che scena girerà, ma senza preparativi particolari. Decidiamo al volo dove posizionare gli attori, come si muoverà la cinepresa, che aspetto avrà il tutto… Lavoriamo man mano, in modo condensato, il che può essere molto impegnativo, ma d’altra parte anche estremamente stimolante. Senza storyboard – quello serve alla gente priva di fantasia! Sul set bisogna avere fantasia e basta.
Quindi Lei si affida più che altro alla sceneggiatura?
Sì, quando la leggo inizio a immaginare grosso modo come gli attori potrebbero muoversi nello spazio. Sul set preparo prima l’attrezzatura, metto qualcosa in qualche angolo o nascondo qualcosa che potrebbe essere di disturbo, in base all’esposizione. Herzog lavora in modo molto concentrato. Il set è praticamente blindato. Spesso nemmeno il truccatore può entrare, così ci sono meno disturbi possibili e gli attori possono rimanere concentrati. Il lavoro del cameraman è quello di seguire l’attore, che però deve avere un po’ di esperienza. Riprendo ciò che c’è nello spazio, il che rende le riprese più veloci. Con Herzog tutto va veloce, gli ostacoli vengono rimossi rapidamente.
Herzog l’ha spesso definita come il suo occhio. Lei invece dice che è solo un giocatore all’interno del gioco.
Sì, non facciamo altro che giocare. Anche per questo motivo lavoro volentieri con mia moglie Silvia, perché sa cosa serve per giocare, più di qualsiasi altro regista. Con Werner è diverso: lui crea mondi, non dirige film.
Può spiegarlo più concretamente?
Lui prepara la scena e io ne ritaglio le parti che poi si vedranno sullo schermo. Silvia è una vera filmmaker, si dedica alla regia perché è lei stessa un’attrice, sa come funzionano gli attori e le immagini. Perciò il nostro lavoro è più omogeneo.
Con Seidl, ad esempio, è tutto più sistematico. Un mondo stilizzato – come se avessi a disposizione delle fotografie e facessi una carrellata in mezzo a loro con la telecamera. Qualche regista mediocre direbbe che il film si gira immagine dopo immagine. In effetti la maggior parte fa così.
Herzog non dirige il film nel classico senso della parola, non dà istruzioni agli attori su come rappresentare il proprio carattere. Parla semplicemente delle cose che lo commuovono o gli interessano e del motivo per il quale sta girando il film – così tutti sul set possiamo averne una visione più approfondita.
Per quanto riguarda il mio lavoro, con Werner non ne parliamo molto. A dire il vero, lui non ne parla mai con me (sorride). Mi dice: leggi la sceneggiatura e saprai esattamente cosa fare. Non parliamo mai di come sarà il film. Gli sembra qualcosa di noioso. Durante le riprese non mi dice mai “fai un primo piano, sposta la telecamera di là...”. Sono libero di spostarmi come preferisco.
Questo tipo di libertà non fa forse un po’ paura?
Certo (sorride). Ma mi piace, perché rende il mio lavoro interessante.
Cave of Forgotten Dreams è stato girato nella grotta Chauvet, nel sudest della Francia, dove nel 1994 sono state scoperte delle pitture rupestri. Come avete girato questo documentario in 3D?
La tecnlogia 3D torna di moda ogni trent’anni: dopo gli anni settanta è tornata in voga nel primo decennio del secondo millennio. Negli ultimi tempi non mi sembra ci siano molti film in 3D. Cave of Forgotten Dreams è stato girato poco dopo l’uscita di Avatar di Cameron. Ma nessuno prima d’allora aveva girato un documentario in 3D.
Dave Harding, il nostro produttore esecutivo, ha cercato in Gran Bretagna Dabid Blackham, che aveva le telecamere SI2k e buoni contatti alla British Technical Films, dove avevano già sperimentato la telecamera Phantom con tecnica a specchio, utilizzata con successo nella realizzazione di spot pubblicitari.
Quando siamo entrati per la prima volta nella grotta, abbiamo dovuto iniziare immediatamente con le riprese, senza nessuna preparazione. Werner era l’unico ad aver già visitato la grotta un mese prima. L’attrezzatura tecnica ottenuta con tanta fatica dagli inglesi è dovuta rimanere fuori, perché era troppo grande per essere trasportata attraverso i passaggi stretti della grotta. Durante la notte ho riflettuto sul da farsi e ho trovato la soluzione attaccando insieme due telecamere con il nastro adesivo.
Come facevate a illuminare la grotta e fare le riprese?
Avevo una lampada frontale e un’altra in mano. Queste erano le mie luci mobili. Anche le pitture rupestri della grotta sono state realizzate con una luce mobile: il fuoco non è statico. L’ideale sarebbe stato riprendere alla luce delle fiaccole. Invece Werner, il mio assistente Erik e io ci siamo attrezzati con le torce elettriche. Passando accanto alle pitture sembrava prendessero vita come quando furono create.
Sembra che il suo modo di girare i documentari non sia molto diverso da quello usato per i film.
In effetti è così. Qual è il senso del girare un film di fiction o un documentario? Creare un mondo e condurvi lo spettatore. E il modo più autentico per farlo è riprendere tutto come se si stesse girando un documentario. Non sono stato io a inventarlo, molti fanno così. Ma è molto più difficile, perché se vuoi essere autentico, tutto ciò che desideri raccontare deve prendere vita davanti alla telecamera. Solo allora puoi fare le riprese come in un documentario, come ha detto Lei. Ma se le cose non prendono vita davanti alla telecamera, non c’è niente da riprendere. Gli studenti o i cameraman inesperti spesso pensano che la cosa migliore sia accendere la telecamera e non fare niente. Ma così è noioso! Bisogna fare le cose giuste (sorride), con l’intensità giusta, solo così può nascere qualcosa.
Cosa dà soddisfazione allo spettatore durante la visione di un film?
Tre cose: una buona sceneggiatura, una buona recitazione, una buona regia. L’arte di collegare queste tre cose. Quando le prime due sono di buona qualità, è possibile realizzare un buon film.
Quando il film si trasforma in uno strumento per comprendere il mondo?
Semplice: quando è un buon film. Altrimenti non è niente. Il film può essere anche manipolatorio, perché offre allo spettatore una possibilità di identificazione.
Lei afferma che più materiale girato c’è, meno è possibile averne il controllo alla fine.
Sì, e con questo non intendo il controllo sulla quantità, bensì sui produttori, che possono arrogarsi il diritto di terminare il film a proprio piacimento. Mi ricordo una volta mentre giravo un film con Werner e i produttori chiamarono un’altra troupe dicendo che avevano bisogno di ulteriore materiale girato per il montaggio. Werner si piazzò davanti alla telecamera, coprendo la visuale all’operatore. Ma loro iniziarono a posizionare sempre più telecamere per avere più materiale, ingaggiarono un montatore e da tutto ciò realizzarono… una merda, mi si passi il termine.
Tre anni fa ha girato il film Tommaso con Abel Ferrara.
Lo abbiamo girato in quindici giorni a Roma. Abbiamo tinteggiato l’appartamento di Abel per creare l’atmosfera necessaria al film. Abbiamo ripreso senza permesso nella metropolitana, per lo più con attori non professionisti. Willem Dafoe e gli studenti di recitazione di Abel erano gli unici professionisti. La mia azienda Film srl si è occupata della postproduzione e infine abbiamo avuto la prima a Cannes.
Quanto è diverso girare un film con stelle del cinema come Nicole Kidman (La regina del deserto) o Nicholas Cage (Il cattivo tenente) rispetto ad attori meno noti e meno esperti?
Non c’è differenza. Ovviamente il ruolo del protagonista è al centro dell’attenzione, ma non è raro che in determinate scene un ruolo secondario diventi il principale per il direttore della fotografia. Dipende dalla struttura della storia.
Cosa succede quando non è d’accordo con la storia che sta girando?
Se si tratta di un film che non ha alle spalle una produzione importante, posso influire in qualche modo sulla storia (sorride), oppure se il regista e il produttore sono abbastanza intelligenti da saper ascoltare le proposte. Con gli idioti è impossibile discutere. E non si tratta di chi ha ragione o torto, bensì del modo di collaborare.
La sua domanda coglie nel segno l’attività del direttore della fotografia, che non può mai decidere in autonomia e nella gerarchia occupa il secondo posto, o addirittura il terzo, economicamente parlando, perché oggigiorno non è più il regista a occupare il primo posto, bensì il produttore. Quindi io sono al terzo posto.
Le racconto un aneddoto: ai tempi dell’università eravamo in due a studiare fotografia cinematografica, gli altri nove studiavano regia. Quelli che hanno lavorato con me sono diventati davvero registi. A volte i loro produttori non volevano lavorare con me, e allora quasi sempre il film non aveva successo. Ciò che le sto dicendo potrebbe sembrare tremendamente presuntuoso, ma quello che volevo sottolineare è che la sinergia tra direttore della fotografia e regista è di importanza cruciale per le riprese. Con molti di questi registi, infatti, abbiamo girato ottime cose, proprio grazie alla sinergia tra di noi. I produttori del film Tunnelkind avevano proposto al regista Erhard Riedlsperger un altro direttore della fotografia al posto mio, ma lui si rifiutò. Dico sempre ai miei studenti di non dare subito la caccia ai grandi nomi della regia o a qualche celebre direttore della fotografia, bensì di lavorare con i propri coetanei e compagni di studi, con qualcuno con cui crescere insieme.
Con James Franco ha collaborato due volte: nei film che ha diretto (Pretenders e The Future World) e in Regina del deserto, dove interpretava il ruolo di Henry Cadogan.
L’ho conosciuto durante le riprese della Regina del deserto e poi ho collaborato con lui due volte come direttore della fotografia. Al momento sta scrivendo con mia moglie la sceneggiatura di un nuovo film, una storia ambientata in Friuli in cui interpreterà una parte. Silvia ha già collaborato diverse volte con lui come acting coach, soprattutto in Future World, dove ha lavorato con la protagonista Suki Waterhouse e Snoop Dog. Si è trovato bene, eravamo un gruppo affiatato: James, il su co-regista Bruce, Silvia e io – dalla fase di sviluppo del film in poi abbiamo fatto tutto insieme. Si tratta di un film d’azione simile a Mad Max, ma senza tagli veloci, le nostre azioni sono state riprese in una sola volta.
Franco è uno dei filmmaker più creativi che abbia mai conosciuto: è scrittore, sceneggiatore, regista, performer, bohémien e sempre in compagnia di gente estremamente creativa. Qualche volta io e Silvia abbiamo detto scherzando che è come Michelangelo circondato dai suoi allievi. E lo è stato veramente, con questo team ha girato la commedia biografica di successo su Tommy Wiseau The Disaster Artist, che ha avuto la nomination a numerosi premi, alcuni dei quali anche vinti.
Insegna fotografia cinematografica anche all’Università di Monaco di Baviera. Cos’è essenziale che imparino gli studenti, futuri direttori della fotografia?
Innanzitutto devono comprendere e scoprire prima possibile qual è la loro visione del mondo e trovare in essa qualcosa di unico. Questo è il solo modo per sopravvivere in questo lavoro e per distinguersi dall’enorme massa di persone che vogliono fare lo stesso mestiere. Ogni giorno incontro filmmaker che vorrebbero diventare famosi e guadagnare milioni, ma non fanno nient’altro che copiarsi a vicenda e il loro guadagno è banale. Accade quando si lavora senza passione.
Bisogna andare tra la gente, bisogna vedere da vicino la realtà in cui viviamo, la sua diversità e molteplicità. Bisogna viverla! Lontano dal monitor del computer…
Il lavoro del filmmaker ha molto a che fare con la poesia. In tedesco poesia si dice “Dichtung”, che deriva dal verbo “dichten”, cioè stringere, condensare. A volte la verità si nasconde nell’etimologia.